Sulle province e sul sistema delle autonomie, la propaganda prevale sull’analisi

10 years ago by in Senza categoria, Video Tagged: , , , ,

Con il DDL Del Rio ancora una volta si mette mano al sistema delle autonomie locali. Molto spesso approcciando questi temi si è ridotto lo spazio di democrazia riducendo il numero degli eletti. Questa riforma si inserisce appieno in questo solco, di non sistematicità e una volta più a ridurre gli spazi di democrazia, piuttosto che un chiaro disegno del Paese. Dopo vent’anni di federalismo, siamo riusciti nell’improbo compito di realizzare tre punti: una forte riduzione dei trasferimenti di capacità decisionale e di progettazione degli enti locali, una riduzione del numero degli eletti, e di fatto sottoponendo tutti gli enti locali e tutto il sistema delle autonomie, all’insensata logica del patto di stabilità. Sul tema delle province siamo arrivati, attraverso il Governo Letta e oggi con il Governo Renzi, ad una semplice abolizione della democrazia e dei criteri elettivi se non di secondo livello.

Signora Presidente, ancora una volta mettiamo mano al sistema delle autonomie locali. Se ci si chiede se fosse necessario e se fosse urgente, la nostra risposta sarebbe affermativa. Ma aggiungiamo alla necessità e alla urgenza un altro criterio, quello di una riforma organica e non di un intervento ancora una volta sul sistema delle autonomie locali, parziale e a sottrazione, che non tiene insieme un intero sistema senza considerare le ripercussioni che tocca un pezzo dell’intero sistema Paese.

Questo avviene dopo vent’anni che nel nostro Paese ha fatto irruzione il termine federalismo, un termine declinato in ogni sua forma e in ogni modo, dalle accezione separatiste dei colleghi della Lega alle concezioni ottocentesche o alle concezioni europee. In ogni caso, in virtù del federalismo, in questo Paese sul sistema delle autonomie locali si sono via via svolte una serie di riforme senza che mai si facesse il punto e senza che mai vi fosse una messa a regime e a sistema delle stesse. Molto spesso si sono fatte finte riforme a sottrazione, intervenendo sulla parte fiscale e finanziaria.

Molto spesso si è ridotto lo spazio di democrazia riducendo il numero degli eletti. Questa riforma si inserisce appieno in questo solco, di non sistematicità e una volta più a ridurre gli spazi di democrazia, piuttosto che un chiaro disegno del Paese. Per questo siamo estremamente delusi dal tipo di riforma proposta, nonostante noi avessimo voluto interloquire, non abbiamo potuto che porre alcuni minimi correttivi. Le riforme in questi anni non hanno garantito quella spinta necessaria alle autonomie, fortemente legittimata all’inizio degli anni Novanta, dall’immagine plastica dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia e da una vera autonomia fiscale dei comuni e delle province.

Molto spesso gli enti locali hanno sopperito alla mancanza di risorse e di trasferimenti da parte dello Stato, piuttosto che alla loro autonomia, attraverso altre leve, come l’uso indiscriminato degli oneri di urbanizzazione, sistema che ha funzionato fintanto che il ciclo economico era espansivo e che oggi non funziona più e che mette a repentaglio la grande quantità di servizi offerta dagli enti locali, che costituiscono ancora oggi l’ossatura del welfare del nostro Paese. Dopo vent’anni di federalismo, siamo riusciti nell’improbo compito di realizzare tre punti: una forte riduzione dei trasferimenti di capacità decisionale e di progettazione degli enti locali, una riduzione del numero degli eletti, e di fatto sottoponendo tutti gli enti locali e tutto il sistema delle autonomie, all’insensata logica del patto di stabilità. Credo che non fossero queste le prospettive da cui si partiva quando si iniziò a parlare di federalismo.

Credo che molto spesso sui temi della riforma degli enti locali, la propaganda abbia preso molto più il posto di un’analisi seria e puntuale di quale disegno si vuole dare dell’organizzazione dello Stato e di quali ricadute hanno queste scelte nei confronti dei cittadini. Vediamo in questo tutta la debolezza della politica, la debolezza di non saper affrontare il punto di quelli che sono i reali problemi del Paese: la disoccupazione, una conversione ecologica dell’economia, piuttosto che una riduzione delle diseguaglianze in senso generale o, in senso locale, una seria politica di trasporto pubblico, una seria gestione dell’ambiente e dei rifiuti, una seria gestione delle politiche dell’edilizia scolastica.

E non essendo in grado di fare questo, allora ci si trincera dietro finte riforme. È una debolezza che in qualche modo accompagna almeno gli ultimi tre Governi, nei quali il leitmotiv dell’abolizione, che poi non è di fatto tale, delle province, né si tratta di un ridisegno serio delle aree vaste né di un ridisegno serio dei rapporti tra le istituzioni, si perpetua.

Abbiamo avuto il Governo Monti, in cui si partì da una ridefinizione e un ridisegno delle aree geografiche territoriali per arrivare ad un mero accorpamento, ma che avrebbe almeno avuto il merito di accorpare quelle amministrazioni periferiche dello Stato che sono il vero costo.

Invece siamo arrivati, attraverso il Governo Letta e oggi con il Governo Renzi, ad una semplice abolizione della democrazia e dei criteri elettivi se non di secondo livello per quanto riguarda le province.

Ed è un grave vulnus nei confronti non solo della rappresentanza e della partecipazione, ma della stessa legittimazione di chi andrà a dirigere quelle aree vaste senza aver ben chiaro con quali funzioni, quali risorse e quale rapporto nei confronti di regione e di Stato, andando a creare peraltro enti di «serie A» e di «serie B», cioè un rapporto molto sbilanciato tra quelle che sono le città metropolitane e le province che ancora permangono, soprattutto in aree dove magari le città metropolitane contano, nei confronti della regione, più della stessa metà della stessa. Bisogna capire e immaginare che molto facilmente si creeranno dei conflitti ancor più gravi di quelli a cui noi oggi assistiamo, tra enti che insistono sullo stesso territorio.

Noi avremmo preferito partire da una seria analisi di quello che è avvenuto in questo Paese, a partire dagli anni Settanta, anche nei confronti dell’ente regione, il quale era partito con le migliori intenzioni, con intento legislativo e che via via si è amministrativizzato, in cui la capacità e la qualità legislativa è andata scemando e in cui molto spesso ci sono stati tentativi di ridisegno e di superamento all’interno delle stesse regioni delle aree vaste intese come sono le province. Crediamo che l’intero provvedimento recepisca alcuni miglioramenti introdotti al Senato, alcuni da noi proposti, come l’attribuzione almeno alle province delle funzioni di edilizia scolastica, l’aumento, per quanto riguarda i comuni sotto i 10 mila abitanti, del numero dei consiglieri delle giunte.

Ma sono il minimo sindacale nei confronti di un provvedimento che, invece, fa acqua da molte parti e non risolve, a parte creare un’aspettativa nei confronti dei cittadini, in alcun modo il problema dell’impianto istituzionale del nostro Paese e, soprattutto, non affronta con il dovuto coraggio quello che è il tema centrale della frammentazione, dell’eterogeneità, della dispersione amministrativa del nostro Paese rappresentato dagli 8 mila e più comuni che insistono sul territorio, con una differenziazione geografica enorme da regione a regione, da area geografica ad area geografica e che non fanno che rendere ancora più debole quel territorio che ogni giorno vediamo crollare, dimostrando tutte le sue debolezze sotto i nostri piedi.

Credo che ci sarebbe stata la necessità di un maggior coraggio, non tanto rispetto alle unioni o alle convenzioni e molto spesso i comuni scelgono, nel dato confusionale, la seconda delle ipotesi, quella delle convenzioni, senza addivenire a quel necessario spirito di riduzione di questa frammentazione, che è quello proprio della fusione di comuni. Infatti, troppo debole è l’intervento e l’incentivo nei confronti della fusione. E solo da quello si può partire per una riduzione effettiva del numero di enti amministrativi disseminati sul territorio, attraverso una forma volontaria di aggregazione. Ma in questo provvedimento è troppo debole lo spirito, per come lo immaginiamo.

Tutto sommato questo provvedimento è un provvedimento ancora una volta zoppo, soprattutto perché interviene su un settore e su una materia di rango costituzionale, quindi intervenendo prima che la riforma sia realizzata. E’ zoppo perché è mancato un reale confronto con i diretti interessati, i cittadini e gli amministratori, senza valutare le esperienze virtuose che in questi anni sono state fatte anche nell’amministrazione degli enti locali, senza valorizzarle. Tutto ciò non porta a un disegno compiuto, ma semplicemente a una scarsa legittimazione della classe politica e a una scarsa legittimazione di quelli che sono gli interventi nei confronti dei cittadini.

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